Ricordi di 70 anni fa – Il “fronte” al Borghetto

Caro Mattia,

Ho 79 anni , abito a Livorno da 40 anni  ma amo molto la Val di Chiana da cui proveniamo sia io che mia moglie. Fino ad una diecina di anni fa avevamo anche una casa a Tegoleto ereditata da un nonno che aveva anche proprietà al Borghetto ove io stesso ho  vissuto dal 1944 al 1948 A titolo di curiosità aggiungo che quel grande albero di noce che vedi sull’orto di mia cugina Anita fu piantato da mio padre nel gennaio 1944 quando, anche per scappare dai bombardamenti iniziati su Arezzo, ci trasferimmo al Borghetto. Per questo mi piace cercare su internet tutto quanto riguarda Tegoleto, Alberoro e la Valdichiana in genere, capitando così sul sito “Festa val Borghetto”, festa a cui qualche volta ho preso parte in occasione delle mie ricorrenti ma ora sempre più rare visite ai luoghi nativi. Per la prossima festa mi hai detto che vorrete ricordare i 70 anni dal passaggio del fronte, intervistando  sull’argomento i non molti  ancora in vita. Come promesso ti trascrivo qui di seguito quello che ho scritto al riguardo una ventina di anni fa: non sono proprio fatti specifici accaduti al Borghetto ma penso riescano a ricostruire l'”atmosfera” di quel tempo in modo non retorico: Del resto fatti eclatanti ( come l’eccidio di Civitella)  al Borghetto non successero. Il più triste che ricordo è la morte di tre ragazzi al Poggio di Alberoro per l’esplosione di proiettili che gli stessi cercavano di smontare per recuperare il rame!

La guerra

I  miei primi ricordi coincidono con l’inizio della seconda guerra mondiale che, per la verità, non coinvolse direttamente  – per motivi di età –  i miei parenti stretti Il babbo, classe 1905, la scampò per il rotto della cuffia; proprio nel giorno della trebbiatura del grano, in Via delle Conserve, il postino  recapitò la temuta “cartolina rosa” di “richiamo alle armi” facendomi piangere disperatamente nell’aia. La partenza effettiva poi non avvenne per i reparti di “sussistenza” ai quali mio padre era stato assegnato (qualche suo coetaneo più sfortunato come “il Mosca di Marcassino” si fece vari anni tra guerra e prigionia in Sudafrica!). Francesco , il padre Irma, era del 1904 e non corse rischi di richiamo. I cibi erano razionati : per molti prodotti primari (tra cui pane, pasta, carne ecc.) ogni famiglia riceveva una tessera con vari bollini da utilizzare consegnandoli al commerciante al momento dell’acquisto della merce che, ovviamente, bisognava anche pagare; la razione massima giornaliera consentita  per il pane  era  di 170 grammi. Per i contadini c’era quest’altra regola: al momento della trebbiatura, controllata dalle Guardie, potevano trattenersi due quintali di grano per ogni membro della famiglia conferendo il restante raccolto all’ ”ammasso”, al prezzo stabilito dalle Autorità. Altri controlli burocratici, per combattere il “mercato nero” c’erano presso i “mulini” dove non si poteva macinare grano in quantità maggiore di quella stabilita . I “pigionali”, soprattutto quelli di città, dovevano “stringere la cinghia” e non potevano certo scegliersi il tipo di pane desiderato: quello che trovavano nei negozi era spesso “nero” (perché fatto anche con la crusca) o giallo, in quanto con aggiunta di farina di granoturco. I contadini se la cavavano molto meglio!  Al momento della trebbiatura non mancavano trucchi per far scomparire un po’ di grano: ad esempio io venivo  incaricato dal babbo  di far straboccare per terra, simulando un gioco,  il sacco o il “bigone” dove si raccoglieva il grano che usciva dalle bocchette della trebbiatrice. Il grano traboccato si mescolava con la “pula” e “pagliolo” che ricopriva tutta l’aia per essere poi raccolto e vagliato il giorno dopo. Altre scappatoie esistevano per macinare di più ai molini e qualcuno aveva  anche inventato una molatura casalinga a mano; infine per ottenere più pane con meno farina c’era chi aggiungeva all’impasto  patate lessate e schiacciate. Un particolare curioso: sia io che Irma ricordiamo di aver scambiato un po’ pane bianco con vicini “pigionali” che avevano  pane di granturco, dal sapore gradito di biscotto! Al governo c’era Mussolini e il fascismo mentre il Re non comandava niente. I genitori e parenti  nostri però non erano fascisti. Mio padre si dichiarava socialista, suo fratello Angelo aveva una “falce e martello” tatuata su un braccio e  Checco, ubbidiva solo alla Chiesa e a padre Valerio, il fratello frate francescano. La scuola indottrinava i ragazzi che in prima e seconda elementare erano classificati  “figli della Lupa”, senza obblighi particolari. In terza elementare però  diventavano “balilla” e dovevano  partecipare, in divisa nera con fascio e gagliardetto, a periodiche sfilate. Case e palazzi lungo le strade mostravano una varietà impressionante di slogan inneggianti alla patria, al Duce , al fascismo, alla guerra, tutti scritti a regola d’arte su apposito intonaco e quindi verosimilmente imposti o finanziati dal  PNF (partito Nazionale Fascista). Il 25 Luglio 1943 Mussolini fu estromesso dal Governo. La gente era felice e si precipitò ad abbattere o danneggiare fasci littori e altri simboli fascisti, a cancellare o sporcare slogan. Anch’io volli partecipare e gettai nel gabinetto (una “latrina” senza acqua corrente in cima alla scala nella casa di Via delle Conserve) ogni documento trovato in casa tra i quali la pagella attestante la  mia  promozione alla terza elementare! L’8 settembre 1943 il nuovo governo Badoglio annunciò l’armistizio. La gente credette che la guerra fosse finita, l’esercito andò allo sbando, i soldati cercavano di tornare a casa ( ne ricordo uno  che offriva il fucile in cambio di abiti civili). Invece la guerra continuò, i tedeschi occuparono l’Italia: ad Arezzo iniziarono i bombardamenti degli Alleati ( il primo, di notte, con l’uso di “bengala”,  fu osservato da tutta la mia famiglia che, insieme ai vicini, era uscita  su  una collinetta  nei pressi di casa alle “Conserve”). Ad Arezzo le scuole  nell’ottobre del 1943 non furono riaperte. Nel gennaio, come sopra accennato ci trasferimmo al Borghetto e così  potei frequentare per qualche mese la terza elementare ad Alberoro. Intanto nella primavera ’44 il “fronte” si avvicinava e la  casa del Borghetto, adiacente ad una strada , fu occupata dai tedeschi. Per motivi di sicurezza si andava a dormire come “sfollati” nella casa della “Zi Sesa”  al “Poggio di là” dove io rimanevo anche di giorno giocando con i cugini Carlo, Anita e la piccola Silvana Il “Poggio di la” è sempre nel territorio di Alberoro ma abbastanza vicino a Tegoleto. Il 29/6/44 ci fu un terribile fatto di sangue a Civitella della Chiana: alcuni “partigiani” avevano teso un’imboscata e ucciso  dei soldati tedeschi. Per rappresaglia in quel giorno, festa dei Santi Pietro e Paolo, furono uccisi oltre 100 uomini, molti dei quali catturati all’uscita di una messa che il parroco aveva cercato invano di prolungare. Il fumo che saliva dalle case di Civitella incendiate fu osservato da me, che era al “Poggio”, e certamente anche da Irma distante solo qualche chilometro.   Nel luglio la Valdichiana fu liberata. I tedeschi resistettero  una quindicina di giorni ad Arezzo e sul monte Lignano per cui le loro cannonate fischiavano intorno alla casa del Borghetto ove anche io era rientrato.   Poi il “fronte” si spostò verso Firenze, per la Valdichiana la guerra era veramente finita e nell’ottobre ‘44 riaprirono le scuole in locale di fortuna in quanto l’edificio scolastico di Alberoro non era ancora disponibile. Buona parte delle lezioni si svolgeva all’aperto perché c’era una sola aula per cinque classi che la usavano a turno (per l’esattezza l’aula vera era quella dell’asilo parrocchiale e quella all’aperto era spesso un’aia, vicino al “pagliaio” che  riparava la classe dal vento). Il mio maestro abitava a Montagnano e al termine delle lezioni faceva la strada di ritorno con me; portava sempre qualche pacchetto con cibarie varie, gradito omaggio di scolari figli di contadini.   A nove anni vivevo in mezzo a bombardamenti e cannonate, camion militari, campi di munizioni e di benzina; giocavo anche con polveri da sparo abbandonate e con “bossoli” o addirittura cartucce 1cariche che si trovavano qua e la. Assaggiai cioccolata per la prima volta e con i miei compagni di gioco raccoglievamo “cicche” per dare a qualche adulto il tabacco ricavato (con le “cartine”, ci rifaceva sigarette) in cambio di qualche soldo per il gelato.   I miei genitori, come già facevano ad Arezzo, tenevano una mucca e la mamma faceva la “lattaia”. Al “Borghetto” c’era anche chi veniva a comprare latte saltuariamente a casa nostra. Ero autorizzato a venderlo e a riscuoterlo: i soldini li mettevo in un cassetto in cucina, dove anche attingevo per comprare le palline o il gelato (quando passava il gelataio che con apposita trombetta annunciava l’arrivo del suo bel triciclo colorato!)

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