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RACCONTI D I VITA

VISSUTA

amici

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Quello che ricordo del mio babbo

I miei ricordi diretti sono quindi relativi al tempo limitato dei miei 4/5 – 11 anni: erano gli anni della guerra e immediato dopoguerra!
Il suo lavoro era  quello di  piccolo agricoltore a mezzadria ma con terreni piccoli che però riusciva a sfruttare coltivando anche ortaggi.
Molto dinamico nel cambiare i proprietari: quando sono nato io abitavamo al Bagnoro, poi a “Le pietre”  e quindi in via delle Conserve sempre alla periferia di Arezzo. Da quest’ultima abitazione  i primi ricordi veri e propri della mia  vita. Avevamo anche una mucca e si vendeva il latte. Qui iniziai la scuola e frequentai la Prima e seconda elementare andando a piedi I sino al centro della città (2/3 chilometri) da solo o con il mio primo amico, Oliviero.  Qui ricordo il pianto nel vedere la cartolina rosa che preannunciava il richiamo in guerra del babbo (richiamo poi fortunatamente annullato), qui la Prima comunione e la cresima nella chiesa di Santa Croce.
A  fine 43 nuovo trasferimento, questa volta al Borghetto di Alberoro, in una piccola proprietà che nonno Dedo aveva avuto da una divisione di beni in  comune con suo fratello.
Penso  che questa nuova sistemazione abbia reso felici i miei genitori ,rientrati nel loro paese, ritrovati gli amici di gioventù e avviata una vita nuova, sostanzialmente senza alcun padrone con cui dividere il frutto del loro lavoro. Anche qui lavoravano piccoli appezzamenti di terreno e tenevano mucca da latte e  pollame mentre il babbo,oltre al lavoro nel poderetto aiutava nonno Dedo,ormai settantenne, nel suo lavoro di fattore.

Purtroppo ho vissuto poco con lui, avevo 13 anni quando ha lasciato questo mondo a soli  43  anni per un incidente; gli ultimi due anni però io ero in seminario dove potevamo vederci solo per un’ora a settimana! Mi aveva mandato lì solo perché continuassi a studiare dopo la quinta elementare.

QUELLO CHE RICORDO DEL MIO BABBO

In questi anni compresi la passione  che babbo aveva per la musica: ln casa avevamo un chitarra, un mandolino, un banjo e un violino che insieme ad un amico si era costruito. ( l’amico ci chiese poi di assegnato a lui e lo accontentammo).
Lo ricordo suonare  In casa “violino tzigano” , L’ Ave Maria di Shubert” durante una messa in chiesa, far parte di una orchestrina nella sala da ballo di Alberoro  insieme al suo amico Camaiani che suonava la fisarmonica.
Mi spiegò che il Camaiani suonava la musica”ad orecchio” mentre lui sapeva leggere lo spartito musicale che iniziò ad insegnarmi insieme a qualche accordo . Alcuni giovanotti venivano in casa nostra ad imparare musica da lui che era un puro autodidatta

I  miei ricordi diretti si fermano qui,nulla mi viene in mente dei due anni da me vissuti in seminario.Sono certo che il babbo non fosse lieto della mia propensione al sacerdozio a cui i padri Maristi mi avevano convertito ,ma non ricordo nessuna discussione  con lui al riguardo. Il dramma della sua morte, il 7 agosto 1948, fece svanire come nebbia al sole la mia “vocazione” lasciandomi il rimpianto di aver sprecato due anni che sarebbero stati preziosi per conoscerci più a fondo.

Queste altre notizie su di lui le ho apprese nel tempo dalla mamma e da altri parenti o amici.
Nato ad Arezzo da  CASI Luigi e Guidelli Lucia il 22 maggio 1905, una famiglia di agricoltori mezzadri alla periferia di Arezzo verso le colline di Poti,
Nonna Lucia ebbe 6 figli (Pasquale, Guido ,Giuseppe,Angelo, Sesto e una figlia, deceduta giovane, di cui non ricordo il nome.
Durante la Prima guerra mondiale i più grandi furono richiamati e a mandare avanti il podere tocco’ a lui che, forse per questo superlavoro rimase piccolo di statura (alto 1,61) in una famigli di uomini tutti più alti e robusti .Fece  poi il servizio militare di leva a Chieti dove si prese una bella pleurite che lo lasciò ancor meno adatto a lavoro pesanti, tanto che verso il 1930, prima di sposarsi, lasciò la famiglia che nel frattempo si era trasferita in un grosso podere(La Campanina)  ad Alberoro.
Non ho mai  approfondito questa prematura uscita di casa – davvero anomala per quei tempi. Ricordo di aver sentito raccontare che come conseguenza della pleurite avuta da militare, necessitava di buon cibo e adeguato riposo.
Resta il fatto che comunque il babbo se la cavo’ bene economicamente grazie alla sua capacità di adattarsi ad ogni situazione di lavoro,  trovando anche il tempo di coltivare la sua grande passione, la musica! Questa sua dote spiega  i ripetuti cambiamenti di casa avvenuti  anche  dopo la mia nascita, cambiamenti sempre volti a migliorare le condizioni della famiglia.
Nulla ho mai saputo di come si siano incontrati lui e mamma e per quanto tempo siano stati fidanzati.Per quello che ne so erano felici insieme, non li ho mai visti né sentiti in contrasto e mi sono trovato poi con una mamma talmente distrutta dal dolore da  non consentire  a me adolescente di conoscere meglio la loro storia d’amore.A parlarne avrei acuito quel dolore che finì per portare anche lei in cielo a soli 52 anni.
Un segno sicuro  sia di questo amore che della sua speciale personalità è dato da questo, in calce fotografato:  mamma custodiva gelosamente questa foto e soprattutto la cornice che il babbo aveva intarsiato con le sue mani su legno di ciliegio.Vi sono scolpiti gli strumenti musicali che erano la sua passione: chitarra, violino, mandolino  e archetto.

La cornice intarsiata

1943

Prima comunione e cresima di Sergio

Chiesa di Santa Croce Arezzo

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LA VALDICHIANA DELLA MIA INFANZIA

La Valdichiana è stata la culla della mia famiglia e di
quella di mia moglie: I miei genitori) erano
di Alberoro, quelli di mia moglie di Tegoleto,
paesini confinanti nei comuni di Monte San Savino e Civitella in Valdichiana.
Al tempo dei nostri ricordi più lontani
(anni ‘42-43) era un mondo che viveva principalmente di agricoltura: c’erano i contadini(“possidenti” o “mezzadri”) e i “pigionali” oltre a qualche  famiglia di “padroni”.
I contadini si consideravano fortunati perché anche in quegli anni di guerra potevano mangiare a sazietà avendo a portata di mano pane, vino, uova, ogni tanto qualche pollo o coniglio, patate, fagioli, verdura, tutta roba di produzione propria.
Al negozio di generi alimentari ricorrevano di rado, in
genere per acquistare baccalà (allora costava pochissimo),pasta, acciughe o sarde e alla “macelleria” ancora meno perché  anche per il pranzo festivo si provvedeva  con la sfoglia fatta in casa per avere maccheroni al sugo di coniglio o tagliolini con brodo di pollo. Annualmente le famiglie con maggiori possibilità “ammazzavano il maiale” procurandosi insaccati sufficienti per diversi mesi.
Nelle famiglie contadine il denaro contante era solo
quello che si poteva ricavare dalla vendita dei prodotti non consumati ma, a chi coltivava poderi piccoli,avanzava
poco. Gli incassi di maggiore importanza provenivano dalla vendita di qualche vitello, acquistato piccolo o fatto nascere e allevato nella stalla, ma ovviamente erano molto saltuari perché ci vogliono nove mesi per far nascere un vitellino e unn anno perché sia pronto per il macello!
In molte case non. c’era luce elettrica (niente frigorifero, lavatrice, lavastoviglie, radio o TV), non c’era gas e si cucinava mettendo le pentole sul focolare
sopra dei “treppiedi” al di sotto dei quali si trascinava ogni
tanto della brace oppure su fornelli con brace e aggiunta di carbone o carbonella. Non c’era acqua corrente né stanza da bagno ma solo un lavamano in camera con un“orcio” per l’acqua e un piccolo specchio girevole. Il bagno si faceva ogni tanto in un catino grande, quello per lavare la biancheria. Periodicamente  si faceva il “bucato” con successiva sciacquatura in un lavatoio pubblico( di regola ce ne era uno in ogni paese o frazione) o se possibile, in un ruscello di acqua corrente.
Le strade non erano asfaltate , le automobili molto rare,
pochi anche cavalli e calessi (tutta roba da signori!) mentre cominciavano a diffondersi anche tra i contadini le biciclette.
In questo mondo la gente viveva felice come e forse più
di oggi. L’amicizia tra i vicini era molto diffusa e, specie nelle lunghe serate invernali, la gente andava a “veglia”per chiacchierare o giocare a carte, ascoltare le storie raccontate dai più vecchi o fare la corte a qualche ragazza da marito.

La Domenica mattina poi tutti alla messa e nel pomeriggio la passeggiata in paese (come descritta dal Leopardi nel“Sabato del villaggio”) . Non mancavano i balli nei circoli di ogni paese o all’aperto negli “chalet”, con piccolissime orchestre formate
in genere da fisarmonica e chitarra, eccezionalmente anche sassofono.

NOTE ESPLICATIVE

1 “possidente” era chi lavorava la terra propria, “mezzadro” chi lavorava le terre di un terzo (il “padrone”) dividendo con questi a metà ogni prodotto eabitando gratuitamente nella casa colonica. Nel dopoguerra fu approvata una Legge che aumentò al 53% la quota del “mezzadro”
2 “pigionale” era chi lavorava per altri sia nell’agricoltura (a “opra”, cioè come bracciante) sia in altri settori: doveva ovviamente comprarsi tutto quanto.

3 Il “fornello” era un capolavoro: ai lati del focolare c’era un piccolo vanocubico con facciata superiore aperta nella quale si poneva un “cestello” dighisa a forma di piramide tronca rovesciata , sostenuto da un bordo che lo
teneva sollevato. La brace consumandosi lasciava cadere la cenere nellospazio sottostante ; sul davanti una “bocchetta” consentiva l’estrazione dellacenere mentre con uno sportellino scorrevole si poteva regolare l’afflusso d’aria potenziandolo al caso agitandovi una “sventola”.

5
BUCATO o BUCATA  – In una grande “pila” di coccio si poneva la biancheria a strati, in cima sistendeva un telo e sopra il telo uno strato di cenere; sulla cenere si versavaogni tanto acqua bollente che, arricchitasi di sali tratti dalla cenere, filtrava
lentamente verso il basso uscendo da un apposito foro. Il liquido che usciva, chiamato “ranno” veniva usato come detersivo per lavare panni di colore.
6  STRADE – Quelle principali avevano un manto di “sassi” biancastri; lo “stradino” le sorvegliava e riempiva eventuali buche attingendo a piccole scorte di sassi
tenute ai lati, a intervalli regolari. Ogni tanto gli “scaccini” reintegravano queste scorte frantumando  sul posto, a mano con appositi martelli, grosse pietre lì trasportate con camion o barrocci.
7 La VEGLIA si faceva essenzialmente d’inverno quando le serate sono più lunghe, intorno al focolare o nella stalla ove la presenza di vacche e vitelli rendeva l’aria tiepida.

Lavamano per Camera e orcio

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BARZELLETTA

(mica tanto)

BARZELLETTA ( ma forse non tanto) 😊

Il primo giorno Dio creò la mucca e disse: – mucca, te toccara’ vi’ ne’ campi col contadino, pati’ tutto l’ giorno sotto l’ sole, figlie’ ogni poco e fatte spreme parecchio latte. La tu’ vita sira’ de 60 anni. –

  • che??? io 60 anni na vita stusi’ n’ la voglio fe’!
    Dammene 20 e 40 li pu’ tene’ le’. – E Dio l’ascolto’.
    Il sicondo giorno Dio creò l’ chene e gni disse: – chene, te toccara’ siede tutto l’ giorno dietro l’uscio dela chesa del’omo e abaiare’ a chi s’acosta. La tu’ vita sira’ de 20 anni. –
  • che????? 20 anni a rompeme i coglioni e a rompili a quel’ altri???..no, no, manco per idea! 10 anni me bastono, quel’altri li pu’ tene’ le’. –
    E Dio gnen’acordo’.
    Il terzo giorno Dio creò la scimmia e disse: – scimmia, te toccara’ divirti’ la gente, fe’ l’ pagliaccio e tutti i versi a coglione per fe’ ride.
    La tu’ vita sira’ de 20 anni. –
  • che???? 20 anni a fe’ l’ coglione???..no davero! Anch’io comme l’ chene 10 anni gnen’ardo’ –
    E Dio acunsinti’.
    Finalmente Dio creo’ l’omo e gni disse: – omo, tue n’ fare’ altro che magne’, durmi’, vi’ a donne, divirtitte quante te père e n’ più senza lavore’.
    Tue campare’ 20 anni! –
  • che???? 20 anni soli con tutto sto ben de Dio???..un me va punto bene…me stia sinti’, m’è nito al’ urecchi che la mucca gn’ha ‘rdeto 40 anni, l’ chene 10, la scimmia altri 10 e se cia’ gionta i 20 mia doventono 80 anni…alo’ faccia conto peri, li dia tutt’ a me! – E Dio gni dette retta…
    .Arecco perché ne’ primi 20 anni n’ se fa altro che magne’, durmi’, gioche’ senza fe’ gnente e divirtisse cole donne…pe’ sucissivi 40 se lavora comme bestie per mantene’ la famiglia..pe’ altri 10 anni se fa i versi per divirti’ i niputini…e l’ultemi 10??…eeeh mi cittini se passono a rompe i coglioni a tutti!!!
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8 settembre 1943

       Avevo 8 anni e mezzo, abitavo alla periferia di Arezzo in via delle Conserve. Avevo frequentato la seconda elementare e sperimentato qualche allarme aereo e relativa corsa della classe al rifugio che era il seminterrato della stessa scuola. L’anno scolastico era finito in anticipo ma comunque ero stato promosso!
La notizia dell’armistizio fece impazzire la gente dalla gioia: tutti
erano convinti che ormai il fascismo e la guerra erano finiti !
Di lì a poco un soldato italiano arrivò  tra noi attraverso i campi e chiedeva di fornirgli abiti civili offrendo in cambio il suo fucile.
Iniziò allora anche una specie di gara nel distruggere i simboli fascisti dovunque si trovassero, le scritte nei muri delle case, le stampe o giornali con i simboli del fascismo.  Non ci crederete ma il sottoscritto senza pensarci troppo gettò nel gabinetto di casa tutte le carte che riusci’ a trovare e fra queste  la “pagella” attestante la  promozione che recava in prima pagina un bel “fascio Littorio” .Nessuno pensava in quei giorni che in realtà la guerra più dura stava solo cominciando tanto che il successivo anno scolastico , ad Arezzo, non iniziò!

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SOS SET 1958 di EMILIO PIZZOFERRATO

SOS…settembre 1958 andiamo è tempo di migrare ora in terra d’Abruzzo i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare…!” Quel 1958 tra primavera, estate ed autunno accadevano fatti indimenticabili: a San Remo a marzo vinceva Modugno, a inizio giugno Baldini si aggiudicava il giro d’Italia ed a Roma ad inizio ottobre moriva PIO XII ed a fine stesso mese veniva eletto il Papa buono Giovanni XXIII. Se D’Annunzio un tempo metteva in poesia la nota transumanza dei pastori d’Abruzzo, io ragazzino ad inizio settembre riprendevo la mia valigia mezzana e salutati mamma, papà, sorella più grande di me, mentre il mio fratellino di 7 anni dormiva, ed alle 3 del mattino riprendevo quel treno ciuf ciuf, solo soletto direzione Roma dove avrei preso in mattinata un altro treno, stavolta elettrico e con poltrone morbide e non di legno con direzione Castiglion Fiorentino, Rivaio. Oggi i genitori forse si beccherebbero una denuncia per abbandono di minore! Quel 1958 prima di ricominciare l’anno scolastico, che avveniva il primo di ottobre, ci portarono per una vacanza settembrina impegnativa e di due settimane tra le colline e le pinete di Sargiano. Vi e mi chiederete: “vacanza impegnativa?” Eh già! Quell’anno diversi di noi avrebbero partecipato al Concorso Polifonico di Arezzo come coro ospite e non concorrente grazie all’interessamento di Don Pietro canonico cola’ e fratello del BURESTI nostro Direttore. Quel già noto Concorso Polifonico di Arezzo aveva visto la sua nascita i primi anni ‘50. A Sargiano ogni santo giorno il Padre Foglia, organista e direttore del nostro coro sottoponeva molti di noi, dotati di capacità canora, a stressanti, diuturne e ripetitive prove di canto polifonico. Tra i profumi di bosco, il canto degli uccelli, il levar del sole ed il navigar delle nuvole in cielo, si levavano anche le nostre “voci pari”: bianche di soprani e contralti e virili di tenori e bassi in prova e riprova….! “Molto rumore per nulla?” sì lo scriveva un tempo Shakespeare e “Molto cantare per nulla” lo racconto ora io! Vi e mi chiederete: “ma che vuol dire?” Ve lo racconterò dopo una breve pausa tanto per non tediarvi in una sola narrazione che potrebbe essere troppo estesa e magari al pari di un “pesante tomo” poco o affatto gradita.

…il sole settembrino era ormai alto e faceva brillare le foglie della pineta mentre le ultime gocce dalla rugiada cadevano scivolando lungo gli aghi dei pini. Il canto di volatili innamorati riempiva il bosco di un cinguettio stridulo e/o armonico. Tutti noi del Rivaio godevamo di quel giorno che a sera avrebbe visto una buona parte di noi ragazzi co-attori di canto ed ospiti del Concorso polifonico internazionale di Arezzo. Fremevamo ed una certa agitazione emotiva ci prendeva mentre le ore scorrevano lente. Il far della sera era ormai prossimo, il sole all’occaso pareva ci salutasse con un infuocato ultimo sorriso bene augurante…ma quel pullman non giunse mai, non partimmo per l’urbe ma fummo radunati dal nostro maestro e direttore di coro lì nel chiostro del Monastero dei frati Cappuccini di Sargiano e la grande delusione si impossessò dei nostri visi! Il Padre Foglia con amarezza ci mise al corrente che motivi superiori ci impedivano di partecipare all’esibizione canora e qualche uffa volava in cielo…”molto rumore per nulla”, avrebbe sentenziato Shakespeare ! Non sapemmo mai ne quali fossero i “motivi superiori” ne perché! Il mattino di alcuni dí seguenti ben altro pullman, essendo terminate quelle settembrine vacanze, ci ricondusse al Rivaio! Qui tra quelle note e familiari mura ci attendeva una seconda amara e cruda sorpresa che ci rimase impressa per tutta la vita. Il prefetto Di Felice ci invitò “more solito” a porci in fila per due annunciandoci una strana passeggiatina e precedendoci ci condusse in terrazza. Gradino dopo gradino eccoci lassù in terrazza rinfrescati dall’aria e dall’odor di resina portata dal vento dalla vicina pineta mentre il sole scaldava le nostre folte chiome. “Mettetevi in semicerchio volti verso la pineta!” fu l’ordine del Prefetto. Postosi lui al centro e puntato il suo indice destro verso la parete del lato strada, che costeggiava il Rivaio e che saliva verso il centro di Castiglioni, ci apparve scolpita, scalfita, scavata sul muro interno una scritta a caratteri cubitali composta di due consonanti gemelle e di una vocale. Al Rivaio aveva pernottato in occasione del Concorso polifonico una numerosa corale ungherese che da qualche giorno era ripartita. Il prefetto ci raccontava che qualche componente del coro, che parlava bene anche l’italiano aveva fatto notare il perché di quanto da essi scolpito su quel muro della terrazza ed aveva raccontato che tra loro c’erano dei poliziotti spie in borghese. Beh tutti ricordiamo che l’Ungheria alleata dei tedeschi era stata invasa dai carri armati russi nel 1944 che sedarono anche un sollevamento armato del popolo magiaro nell’ottobre novembre 1956, ma in quel 1958 eravamo troppo piccoli per comprendere appieno la tragedia di guerre, di un’invasione e dell’oppressione di un popolo da parte di un regime straniero. Il sole ormai se ne andava a dormire laggiu’ oltre la Valdichiana, in Maremma tuffandosi nel mare Tirreno e noi ricomposta la doppia fila riprendevamo la discesa della tortuosa rampa di scale mentre col viso volto verso quel muro con ansia rileggevamo ed imprimevamo per sempre nel nostro subconscio quelle due consonanti gemelle e quella vocale in mezzo ad esse S.O.S. “SAVE OUR SOUL”

Il SOS scritto dal coro ungherese sulla terrazza del Rivaio

Il fabbricato del Seminario del Rivaio

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